La nostra biblioteca si presenta: febbraio 2019



Sezione Ikebana a cura di Maria Teresa Guglielmetti

Questa pubblicazione nasce da tre viaggi in Giappone dal 1966 al 1968 di Roland Barthes (1915–1980), una delle figure di maggior spicco della cultura del XX secolo. Il formato della prima edizione Skira, Ginevra, 1970, collana Les sentièrs de la création, rimanda all’idea di un grande taccuino da viaggio. Il tascabile in italiano, purtroppo, altera in parte il progetto originale e la sua coerenza con le immagini e lo stile dell’opera. 

Barthes, già nelle prime pagine, informa il lettore di aver redatto il suo scritto in una posizione intellettuale improntata alla libertà dai condizionamenti, che hanno segnato per secoli il rapporto della cultura occidentale con l’Asia: “L’autore non ha mai in alcun senso fotografato il Giappone. E’ avvenuto piuttosto il contrario: il Giappone l’ha «costellato» di molteplici lampi; o meglio ancora il Giappone l’ha messo nella condizione di scrivere”.  (1)
Segue un completamento di questo preambolo: “Questa condizione è quella stessa in cui avviene una certa vibrazione della persona, un ribaltamento di vecchie letture, una scossa del senso, lacerato, estenuato, senza che l’oggetto cessi mai d’essere significante, desiderabile. La scrittura è, in definitiva, a suo modo, un satori; il satori (l’accadere zen) è un sisma più o meno forte (per nulla solenne) che fa vacillare la conoscenza, il soggetto […] ed è da questo vuoto che nascono i tratti con cui lo zen, nell’esenzione di ogni senso, scrive i giardini, i gesti, le case, i mazzi di fiori (2), i volti, la violenza.”(3) 

Carattere Mu che significa il vuoto

Il vuoto dello Zen, una religione senza dio, è la corrente sotterranea che ha alimentato la cultura giapponese per secoli e che offre la chiave per comprendere l’affermazione di Barthes a proposito del titolo dell’opera: “Impero dei Segni? Sì, se si vuol dire che questi segni sono vuoti e che il rituale è senza dio.” (4)  I segni, che hanno colpito l’autore in Giappone, si esauriscono a suo parere nella loro bellezza, curiosità o drammaticità e non rimandano in modo così pervasivo, come nella cultura occidentale, a ideologie o a concetti religiosi. Intervistato, Barthes afferma: “[…] è in Giappone che ho conosciuto la pratica del segno più vicina alle mie convinzioni e ai miei fantasmi, o, se si preferisce più lontana dai disgusti, irritazioni e rifiuti che suscita in me la semiocrazia occidentale” (5)

Nell’Impero dei segni confluiscono una conoscenza del buddismo zen, che va ben oltre la sterile erudizione, e le esperienze letterarie, teatrali e filosofiche di un grande studioso. L’opera è caratterizzata da un lessico estremamente sofisticato, preso spesso a prestito da linguaggi specialistici o comunque da campi semantici che, a prima vista, non hanno un collegamento con l’argomento trattato: è un uso allusivo e ambiguo della lingua che la trasforma in uno strumento sottile, capace di penetrare nelle sfumature del pensiero e delle rappresentazioni mentali della sensibilità provocando la presa di coscienza da parte del lettore. Queste caratteristiche si coniugano con una scrittura brillante e spesso divertente che fa anche appello alla fantasia ed all’immaginazione. Intuizioni folgoranti giungono all’essenza di un paese ancora oggi, per diversi aspetti, poco comprensibile alla maggior parte degli occidentali. 

Chi non si ritrova nelle pagine sulla difficoltà di girare a Tokyo senza i nomi delle vie? Ai tempi di Barthes non c’erano i cellulari ed il Giappone non era ancora una meta turistica, ma anche oggi restano attuali le profonde ed argute osservazioni: 
“[…] l’esperienza visiva (è) un elemento decisivo dell’orientamento: affermazione banale se si trattasse della giungla o della boscaglia, ma lo è molto meno se riguarda una grandissima città moderna […]
Questa città non può essere conosciuta che grazie ad un’attività di tipo etnografico: bisogna orientarsi non con il libro, l’indirizzo, ma con lo stesso camminare a piedi, con la vista, l’abitudine, l’esperienza: ogni scoperta è insieme intensa e fragile, non potrà essere ritrovata che grazie al ricordo di quella traccia che ha lasciato in noi […] (6)
Ancora oggi, come fece esperienza Barthes, i giapponesi indicano gli indirizzi con uno schema di orientamento disegnato a mano, che parte da un riferimento conosciuto. Una pratica, che crea un rapporto di affabilità tra chi dà e chi riceve l’informazione, anche se ormai purtroppo, sempre più di frequente, si ricorre all’anonimato delle piantine stampate con il PC.

Indicazione di indirizzo riportata da Barthes - Indicazione di indirizzo ottobre 2018

Le città giapponesi in generale non si articolano urbanisticamente intorno ad una piazza centrale, tuttavia Tokyo possiede un centro che Barthes definisce “vuoto”:

 “La città di cui parlo (Tokyo) presenta questo paradosso prezioso: essa possiede sì un centro, ma questo centro è vuoto. Tutta la città ruota intorno a un luogo che è insieme interdetto e indifferente, dimora mascherata dalla vegetazione […] abitata da un imperatore che non si vede mai, cioè, letteralmente, da non si sa chi.” (7)

Pianta del palazzo imperiale e dei giardini circondati da fossati d’acqua © Wikipedia

ll Palazzo Imperiale con i suoi edifici e giardini, in parte inaccessibili ed accuratamente celati ai cittadini, è abitato da un imperatore, che conduce una vita molto appartata e si dedica nell’isolamento a riti ancestrali, sconosciuti alla maggior parte della popolazione, con la quale non comunica mostrandosi dai balconi o dalle finestre del suo palazzo. Il centro di Tokyo è “vuoto” perché non vissuto dai cittadini, ma evitato: il traffico gli gira intorno. A questo Barthes contrappone la concezione urbanistica delle città occidentali, nelle quali le istituzioni politiche, religiose, economiche sono concentrate nel centro, vissuto dai cittadini come luogo della più alta espressione culturale e sociale.: “[…] conformemente al movimento stesso della metafisica occidentale, per la quale ogni centro è la sede delle verità, il centro delle nostre città è sempre pieno, luogo contrassegnato, è lì che si raccolgono e condensano i valori della civiltà […] (8)
Al “centro pieno” della metafisica occidentale è contrapposta la definizione “centro vuoto” riferita a Tokyo, che rimanda per analogia al buddhismo nel quale il centro non è l’affermazione di una verità, ma il vuoto dovuto alla sospensione del linguaggio e del pensiero. 

E che dire delle pagine sulla cucina giapponese, nelle quali la presentazione dei cibi sul vassoio è paragonata alla composizione di un dipinto e cibarsi diventa un gioco di fantasia, perché prelevare i frammenti di cibo con i bastoncini è un ininterrotto disfare e ricreare il quadro?



Molto spazio è dedicato al teatro ed in particolare al Bunraku, nome con il quale viene chiamato oggi il Ningyō Jōruri, una forma teatrale di origine antica e unica al mondo, che combina la recitazione a diversi livelli: visivo-gestuale e uditivo-musicale.  Burattini alti fino a 130 cm sono manovrati da un maestro a volto scoperto e da due assistenti incappucciati. A lato su una pedana i musicisti suonano lo shamisen (9) facendo da contrappunto ad un narratore-cantante. Barthes, che aveva svolto nel periodo 1953-1960 attività di critico teatrale militante di impostazione brechtiana sulla rivista Théatre Populaire, trova nel teatro tradizionale giapponese, ed in particolare nel Bunraku, la realizzazione di uno spettacolo libero da quel pathos del teatro occidentale che ingloba lo spettatore trasmettendogli come naturali ed incontrovertibili dei contenuti ideologici. 

@ Traditionalkyoto.com

“Essendo la parola (nel Bunraku) […] se così si può dire, stimolata dal lato del gioco, le invischianti sostanze del teatro occidentale sono così dissolte: l’emozione non invade più, non sommerge più, diventa lettura e gli stereotipi spariscono, senza che, purtuttavia lo spettacolo si volga nell’eccentricità, nella “trovata”. Tutto questo raggiunge, naturalmente, l’effetto di straniamento […] Questa distanza, […] posta [da Brecht] al centro della drammaturgia rivoluzionaria, […] il Bunraku permette di capire come possa funzionare […] (10)

Barhes, nume della semiologia letteraria francese, per il quale fu creata appositamente nel 1976 una cattedra al Collège de France, dedica una parte considerevole dell’Impero dei segni alla forma letteraria più tipicamente giapponese: lo Haiku. Con grande acume l’autore individua le distorsioni che caratterizzano la ricezione occidentale dello Haiku, giungendo al cuore vero di questa composizione che esprime lo spirito zen, forse più di ogni altra espressione letteraria giapponese: “[…] c’è un momento in cui il linguaggio vien meno .. ed è proprio questa cesura senza eco che costituisce ad un tempo la verità dello zen e la forma, breve e vuota, dello haiku.” (11)

Pittore anonimo della scuola Hokusō, probabilmente metà XVI secolo, Melanzane e cetriolo, inchiostro su carta

D’interesse per gli ikebanisti le pagine in cui l’autore parla della composizione floreale giapponese: “[…] in un mazzo di fiori (2) giapponese […] ciò che viene prodotto è la circolazione dell’aria, in cui i fiori, le foglie, i rami (termini fin troppo botanici) non sono insomma altro che le pareti, i corridoi, i percorsi, delicatamente tracciati secondo l’idea di una rarefazione, che noi, da parte nostra, dissociamo dall’idea di natura, come se soltanto la profusione comprovasse la naturalezza. […] il mazzo di fiori (2) giapponese ha un volume: si può far avanzare il corpo nell’interstizio dei suoi rami, nel chiarore del suo volume […] ripercorrere il tragitto della mano che l’ha scritto […]. (12)

L’Impero dei Segni offre al lettore una grande ricchezza di immagini e di spunti culturali originali non solo del Giappone, ma anche dell’Occidente: l’accostamento ad una realtà tanto diversa da quella di appartenenza richiama tutto il sistema di significati e di valori della propria, un universo che Barthes aveva già indagato ed approfondito con grande acume in tanti suoi scritti precedenti. Le “folgorazioni” dell’autore rendono L’Impero dei segni un’opera eccezionale ed indimenticabile da leggere senza fretta per goderne appieno.



Note

(1) L’impero dei segni, p. 6
(2) Il termine bouquet è stato tradotto mazzo di fiori. In realtà in francese la parola bouquet nel linguaggio corrente denomina non solo il mazzo di fiori, ma anche una composizione floreale ed è spesso usata, in modo non del tutto appropriato, dagli ikebanisti per indicare la composizione floreale giapponese.
(3) Op. cit. pagg. 6-8
(4) Ibidem p. 129
(5) Barthes, Roland, La grana della voce. Interviste 1962-1980, Le Seuil, Paris, 1981, Einaudi,    
        Torino, 1986          
(6) L’Impero dei segni, p. 46
(7) Ibidem pagg. 39-42
(8) Ibidem p. 39
(9) Strumento a tre corde con un lungo manico che viene suonato con un plettro. 
(10) L’Impero dei segni pagg. 60-61
(11) Ibidem p. 86
(12) Ibidem pagg. 52-53